La prevedibilità del danno nelle obbligazioni

Nell’ampia tematica della responsabilità civile assume, più che mai alla luce delle ultime pronunce giurisprudenziali, ruolo temperante il concetto di prevedibilità del danno.

Preliminarmente, al fine di valutare e cogliere i profili più salienti di operatività del principio in esame, è necessario soffermarsi anzitutto sulla questione della nozione di danno.

Posto che nel nostro ordinamento si sono fatte largo le fragili barriere della teoria della nozione “reale” e quella “differenziale” – rispettivamente, l’una interessata solo alle conseguenze patite da un bene (in cui il danno ripristinerebbe solo la svalutazione economica di esso); l’altra invece attenta alla differenza patrimoniale verificatasi nel patrimonio di un soggetto (l’inadempimento produrrebbe un depauperamento soggettivamente ed oggettivamente qualificato che il danno tenderebbe a colmare)- il nostro ordinamento, agli artt. 1218 e ss. c.c., contempera l’esigenze del danneggiato di vedersi eliminare le conseguenze negative del comportamento del debitore con quelle del danneggiante stesso che rifiuterebbe come giuste le pretese creditorie se non fossero legate al suo agire in maniera diretta, prevedibile ed evitabile.

Ovvio corollario di ciò è quella di intendere il danno non con funzione sanzionatoria ma con funzione retributiva di quel “male fatto” subito in conseguenza immediata e diretta del comportamento tenuto dal debitore.

Orbene, uno degli strumenti con il quale si circoscrivono i parametri della risarcibilità del danno (che si differenziano a seconda che si parli di obbligazioni contrattuali ovvero extracontrattuali) è costituito dalla prevedibilità dello stesso da parte del suo autore.

Esso costituisce un mezzo mediante il quale il legislatore, come disciplinato dall’art. 1225 c.c., ha voluto ricercare un legame psicologico tra il danneggiante ed il danno cagionato.

Se è vero, infatti, che la regola generale contenuta nell’art. 1223 c.c. disciplina il generale nesso causale che vi è tra condotta e danno; essa, però, non esaurisce la necessità di restringere l’ambito di addebitabilità a colui il quale abbia previsto la realizzazione del nocumento.

È vero, poi, che il concetto d’intendere la prevedibilità deve essere concretizzato in un elemento oggettivo il meno possibile astratto: da ciò si distingue pertanto la mera probabilità che attiene al solo nesso causale.

Di conseguenza, lo scrutinio dell’elemento soggettivo del danno prevedibile muove dal momento in cui si percepisce la previsione: il tempo a cui fa risalire la prevedibilità è quello in cui si pone la scelta dell’adempimento o dell’inadempimento, cioè in un momento potenzialmente successivo all’assunzione dell’obbligazione, perché è in esso che il debitore percepisce normalmente i prevedibili esiti della sua condotta.

In quest’ottica, allora, l’elemento psicologico costituisce utile espediente per operare la gradazione della colpa, il che consente di escludere (fatto imprevedibile), restringere (fatto prevedibile) o addirittura allargare (dolo del debitore) le maglie del danno e renderlo, di conseguenza, normale e giusto.

Non potrebbe essere altrimenti visto che il canone della prevedibilità permette il bilanciamento degli interessi delle parti contrapposte: in funzione inversa tra prevedibilità ed imprevedibilità/forza maggiore il danno sarà o meno risarcibile.

Diverso, comunque, è il caso in cui (nell’inadempienza contrattuale) via sia consapevolezza ed intenzionalità di arrecare danno: in tal caso anche i danni imprevedibili troveranno ristoro giacché il dolo del debitore esclude l’esigenza di proporzione tra risarcimento e normale prestazione del danno.

Orbene, fatte queste dovute premesse, che si tratti di obbligazione contrattuale o extracontrattuale è rilevante ai fini del modo di attuarsi dell’obbligo risarcitorio come pure dell’operatività del paradigma di cui all’art. 1225 c.c..

Ed infatti, una superflua lettura della norma -orientata dalla dottrina maggioritaria- ci induce a ritenere inapplicabile il concetto di prevedibilità per una serie di ragioni. Anzitutto per il dato letterale dell’art.2056 c.c. che non richiama l’art. 1225 c.c.: logica vorrebbe, infatti, che il fatto illecito non esime l’agente dal rispondere anche delle conseguenze impreviste.

Secondariamente, poiché la responsabilità aquiliana costituisce ex se la mora, non rileva il distacco temporale tra obbligazione ed inadempimento.

In ossequio, quindi, al brocardo ubi lex voluit dixit, ubi nolui tacuit sarebbe negata l’estenbilità del concetto alla responsabilità aquiliana; in realtà la giurisprudenza, per motivi di logica giuridica, ha esteso il concetto di prevedibilità anche agli illeciti extracontrattuali con il giusto rilievo che l’art. 1225 c.c. si atteggia come parametro ermeneutico per l’attribuibilità del danno alla condotta consapevole: la prevedibilità connota la colpa (negligenza, imprudenza, imperizia) e non il nesso causale tra l’evento e la produzione del danno.

In mancanza di colpa mancherebbe l’obbligo risarcitorio seppur il danno sia riconducibile materialmente alla condotta illecita o inadempiente.

Intendere così le cose sarebbe, pertanto, espressione del generale principio della “normalità”: più un soggetto potrà prevedere il danno più subirà l’obbligo risarcitorio, e viceversa.

Orbene, all’inizio si accennava agli ultimi contributi giurisprudenziali, soprattutto di legittimità, nei quali tra l’altro si fugavano i dubbi circa la risarcibilità del danno: in particolare si è chiarito che, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., il danno non patrimoniale (non più al plurale) può trovare cittadinanza anche in sede contrattuale.

Ogniqualvolta, infatti, nell’ipotesi di inadempimento si ledano i diritti inviolabili dell’uomo lì troverà spazio anche il danno non patrimoniale.

Ciò posto, il superamento della concezione prettamente patrimonialistica del danno contrattuale ha dato nuova luce al concetto di prevedibilità come strumento atto a mitigare l’indole locupletativa del creditore con quella di chi asserisce di non saper nulla dei riflessi non patrimoniali di una banale obbligazione.

Ecco perché, nel tentativo di individuare regole comuni da applicare nell’accertamento e nella quantificazione del danno non patrimoniale derivato dalla violazione della lex contractus, non si può non rispolverare il concetto espresso dall’art. 1225 c.c..

Prima, però, è fondamentale capire i contorni dell’indagine concettuale poc’anzi prospettata visto che, in questa sede, il problema della prevedibilità incontra i limiti di se stessa in situazioni dove, normalmente, è più il danneggiato a prevedere il danno che l’autore dell’illecito che di norma ignora ulteriori conseguenze dannose.

Certamente, le norme generali di riferimento per il risarcimento nell’ambito contrattuale restano gli artt. 1218 e ss. c.c., sicché il danno non patrimoniale sarà risarcibile secondo i principi generali che regolano l’illecito contrattuale.

È necessario, poi, spostare le lancette della prevedibilità al momento dell’assunzione dell’obbligazione con particolare riguardo alla c.d. “causa concreta”.

Posto infatti che si assiste sempre più ad un progressivo ampliamento dei c.d. contratti di protezione e, attesa la possibilità ora riconosciuta di risarcimento dei danni non patrimoniali da inadempimento, pur con il filtro della rilevanza costituzionale dell’interesse, ciò denota la necessità di delimitare gli interessi risarcitori con la necessaria mitigazione della prevedibilità di essi.

Non potrà addebitarsi al debitore il danno non patrimoniale non prevedibile nel momento in cui non sia emersa la rilevanza oggettiva che il creditore ha attribuito all’obbligazione assunta.

La questione, allora, deve partire dall’art.1174 c.c. che stabilisce che le obbligazioni devono avere per oggetto prestazioni suscettibili di valutazione economica e devono soddisfare un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.

L’indagine relativa alla causa concreta del contratto ci consente di riscontrare gli interessi che, nello specifico, il negozio mira a realizzare, che potranno essere di contenuto patrimoniale ovvero di contenuto non patrimoniale.

Come è evidente, il vaglio ermeneutico sposta così l’attenzione dalla prevedibilità in astratto (utile per il danno patrimoniale) alla prevedibilità in concreto (discrimen per il risarcimento a titolo non patrimoniale) poiché in quest’ultima emerge la responsabilità del debitore.

Ogniqualvolta il contratto sarà portatore di interessi anche non patrimoniali del creditore conosciuti e conoscibili dal debitore, tanto più il mancato adempimento sarà probabile fonte di danni non patrimoniali.

Alla luce delle superiori argomentazioni, si può quindi concludere nel senso che la prevedibilità in concreto ed in astratto si atteggiano come utile spartiacque tra la funzione risarcitoria del danno e quella prettamente sanzionatoria.

(Altalex, 10 settembre 2015. Nota di Valentino Vescio di Martirano)